Sono i vecchi di Giardini Naxos che raccontano questa storia eneppure essi la vissero direttamente, ma furono a loro volta i lorovecchi a raccontargliela e ai vecchi dei vecchi altri vecchi l’avevanoraccontata.Durante una terribile tempesta notturna, così comincia la storia,tutti in paese udirono il suono abbastanza vicino e prolungato di unacampana di bordo che comandava l’abbandono nave e invocavasoccorso. Era un suono sinistro e frenetico che copriva il rumore deimarosi e il frangersi dell’onda alta sugli scogli di levante. Notte ditregenda: il vento, sempre più rinforzando, trasportava gli umori delmare e la salsedine fino alla piazza del paese e le campane dellachiesa di San Pancrazio, a loro volta, suonavano a stormo ad invocarelo spirito dei morti e le possibilità dei vivi in aiuto dei pericolanti. Aimolti accorsi sulla scogliera, tra l’infuriare degli elementi, apparvevicinissimo un veliero, nera la chiglia e le bianche vele a brandelli, cheinvano lottava, ché l’onda, sempre più alta e tremenda,inesorabilmente lo trascinava contro gli scogli di riva. Alcuni pescatoritentarono di prestare soccorso ai naufraghi con la loro barca, mafurono travolti dai marosi e a stento recuperati.
Il vascello, intanto, con le vele strappate e senza più governo, a tratti
violentemente illuminato a giorno dalle saette del fortunale, s’impennò
sulla cresta dell’onda più alta, ristette per un istante che sembrò
un’eternità, e si udì infine un ultimo scampanìo soffocato dall’onda
rabbiosa che trascinò rapidamente nel baratro nero la nave con tutte le
sue vite.
A sentire raccontare questa storia in una serata invernale, con ilmare urlante e i cavalloni che si rincorrevano, mi fece un certo effetto,specialmente quando mi si disse che a bordo del vascello affondatoc’erano sette fratelli – tutti morti – e che proprio in loro ricordo loscoglio a fior d’acqua di Giardini Naxos contro il quale il loro legnoaveva urtato per sfasciarsi e inabissarsi, era stato ribattezzato «Uscogghiu dei sette frati», appunto «Lo scoglio dei sette fratelli». E sidiceva che ogni qualvolta incalzava una tempesta, quei sette fratellisuonavano ancora dalle profondità del mare la campana di bordo peravvertire i pescatori del pericolo imminente. E suonavano, suonavanosenza stancarsi, ché le anime dei morti non si stancano mai, sino allafine della procella, quando il mare si placava e tornava a ponente ilsereno.Incuriosito, ma anche incredulo, mi recai con un amico la serastessa sul molo nuovo del vecchio porto di Naxos e lì, credetemi, tral’infuriare degli elementi, tra l’urlo rabbioso del vento che gonfiava einnalzava le onde, proprio lì, proveniente dallo scoglio dei sette fratelli,attutito dal mare, ma pur chiaro e distinto, udimmo un suono dicampana, strano, irreale, a tratti ritmico, insistito ma non frenetico. Nonstavamo sognando, non era un’allucinazione. Il mio amico cadde inginocchio e, davanti al mare in tempesta, elevò a voce alta la suapreghiera a Dio. Stupito e pensoso ripresi la via del ritorno. Il giornodopo ne parlai con gli amici del Club Archeosub di Naxos e tutti miconfermarono la storia dei sette fratelli e della campana. Positivista pernatura, attesi che il tempo migliorasse e un giorno, con il mare mossoma non troppo, m’immersi in muta e bibombola, proprio allo scoglio deisette fratelli. Mi avvolse l’acqua fredda e lattescente e scesi con undiscreto timore reverenziale, forse sfiorato dagli spiriti dei fratelli.Intravidi la parete a picco dello scoglio e sulla sua cresta le alghedanzavano un macabro balletto a due tempi, ritmato dall’onda lunga. Ementre scendevo, stringendo forte la sagola, come per sentirmi piùprotetto e a contatto con la realtà, udii quasi all’improvviso il suonodella campana: un suono ovattato, sordo, ma distinto, immutabile,sempre più vicino, più cadenzato, più probabile, più reale, nienteaffatto allucinatorio. Ma ecco che, giunto in fondo, vidi uno spettacoloche non dimenticherò mai: agitate dalla marea e dalla corrente, vigiacevano sette anfore romane, precisamente sette, parzialmentecalcarizzate, coricate l’una accanto all’altra, quasi a contatto, benprotette da folte alghe e gorgonie, miracolosamente intatte in mezzo aun mare di cocci. Tali anfore, sollecitate dal mare, risuonavanocupamente urtandosi in un moto continuo, ritmato, non forte daspezzarle, dolce, armonioso, eterno come il mare, triste come il cantodelle sirene. A volte gli urti erano maggiori e gli effetti più evidenti.Erano verosimilmente questi i suoni interpretati come di campana infondo al mare in caso di maltempo.Contro la base dello scoglio giaceva un grosso ceppo classico dipiombo e un ancorotto di ferro, lì uniti a ricordare anch’essi le procelledi tanti secoli, ma anche la morte dei sette fratelli e di chissà quantialtri prima di essi.Tornai in superficie estremamente commosso e deciso a nonrilevare a nessuno il segreto. Mi ripromisi, cioè, di lasciare che ipescatori credessero ancora che i sette fratelli, morti assieme sullescogliere di Giardini Naxos, assieme continuassero ad elevare a Dio laloro preghiera e agli uomini il loro monito.Questa è una storia vera o, per meglio dire, lo è stata fino aquattro anni fa. Fu allora che un gruppo di pirati s’immerse sulloscoglio dei sette fratelli, imbracò in una rete le sette anfore e, in unanotte senza luna, le recuperò per venderle al mercato clandestino. Ilceppo di piombo fu tagliato con la fiamma ossiacetilenica per esserepiù agevolmente trasportato e venduto come piombo da fondere.Ora la campana non suona più e le anime dei sette fratelligemono al vento avvinghiate al sartiame dei pescherecci.Ed è per questo che odio i razziatori, perché distruggono la poesiadel mare.Franco Papò (1926-1984),a cura del fratello Alessandro,coordinatore del Gruppo Archeosub Labronico