UN RELITTO ETRUSCO TRA I RINVENIMENTI DI
CALAFURIA
Il rinvenimento di un relitto etrusco nei fondali a picco di Calafuria, pochi
chilometri a sud dell’accademia navale di Livorno, è un evento
decisamente importante anche perchè, di tali relitti, se ne sono trovati
soltanto 4-5 in tutto, e prevalentemente in Provenza.
La scoperta è stata effettuata dai sommozzatori G.Citi e L. Marini,del
Nucleo Operativo del G.A.L. (Gruppo Archeosub Labronico) di Rosignano
Marittimo, con il coordinamento tecnico-scientifico di A. Papò, esperto di
reperti litici e di mare antico.
La Soprintendenza Archeologica della Toscana, cui sono stati denunciati i
reperti, ha disposto la conservazione degli stessi nel Museo Archeologico
di Rosignano Marittimo .
Calafuria, nell’antichità, era un punto di passaggio obbligato per tutte le
rotte di cabotaggio che, dalla Grecia e Magna Grecia, dai centri
fenicio/punici e dalla stessa Etruria, conducevano al Mediterraneo
occidentale. Proprio di fronte alla Punta del Miglio di Calafuria passava
l’antica «rotta del vino», seguita dalle navi etrusche per trasportare questo
prodotto e altre mercanzie specialmente a Massalia (Marsiglia), Agathé
Tyche (Agde), Emporion (Ampurias in Costa Brava) ed Hemeroscopéion
(Derna nell’Alicante).
Ma Calafuria era anche un tratto particolarmente infido per le navi antiche,
perché scosceso, ripido, privo di approdi e ripari e frequentemente
soggetto a improvvise e violente libecciate e altre turbolenze meteomarine
che ne giustificano tuttora ampiamente il toponimo.
Ebbene, il nostro mercantile, che stava trasportando soprattutto vino verso
un mercato della Gallia meridionale, forse ad Agathé Tyche, alla fine del V
secolo a. C., sorpreso da una di queste repentine traversie, naufragò
appunto di fronte alle scogliere della Punta del Miglio. Dato che non s’è
finora trovata alcuna traccia dello scafo, anzi, è molto probabile che sia
andato letteralmente a sfasciarsi contro di esse.
A distanza di oltre 24 secoli e in una Calafuria ancora piuttosto furiosa e
percorsa da correnti sottomarine, non è rimasto molto della nave: i reperti
più numerosi sono una buona ventina di anfore etrusche, tutte
rigorosamente di tipo Py4A, con tracce evidenti d’impeciatura esterna,
comunemente adibite al trasporto del vino a partire dalla metà del V
secolo a. C.. A queste anfore, invero, ne andrebbero aggiunte almeno altre
30 dello stesso tipo, che vecchi pescatori della zona riferiscono asportate
da clandestini, insieme a pesanti barre di piombo, in un saccheggio del
1970, ed altri esemplari ancora, chissà quanti, probabilmente trafugati sia
prima che dopo quell’anno.
La medesima area ha restituito anche un’anfora massaliota tipo Bertucchi
2B e una punica Torres 1.4/2-5. Almeno la massaliota faceva sicuramente
parte del carico per l’evidente motivo che è stata trovata conglobata con
una delle anfore etrusche mediante il suo stesso contenuto fuoriuscito di
pece. Si è pertanto rivelata utilissima per circoscrivere la datazione del
complesso alla seconda metà o agli ultimi decenni del V secolo a. C..
Anche la punica è sostanzialmente coeva (fine V sec. a. C.) ma, pur
essendo stata rinvenuta ai limiti dell’area, non ne abbiamo prove certe di
attribuzione.
Sono stati inoltre rinvenuti molti frammenti di grossi contenitori fittili da
trasporto, vasellame da cambusa-mensa (non ancora analizzato), barre di
piombo cosiddette «d’appesantimento», una grande ancora di pietra
(ceppo litico), un’ancora litica minore. Infine, un misterioso e intrigante
oggetto di piombo completamente concrezionato, di forma
parallelepipeda, alto cm. 22, pesante ben 23 kg, sormontato da una
specie di maniglia, presentante su ogni faccia 3 o 4 fori non ordinati, non
passanti, non combacianti, larghi cm. 1,5 e profondi quasi cm. 5. Nella
stessa area e, soprattutto, al di fuori di essa, sono stati rinvenuti anche
parecchi altri reperti attribuibili ad epoche e contesti diversi.
All’epoca presunta della nave di Calafuria (425-400 a. C.), era già in atto e
inarrestabile il declino degli etruschi sul mare: nel 474 a.C. la loro
talassocrazia era drasticamente finita nella battaglia navale di Cuma-Capo
Miseno, stravinta dai siracusani di Gerone. Una ventina di anni dopo (453
a. C.), un’altra squadra navale siracusana, al comando dello spietato
navarca Apelles, aveva completato l’opera demolitiva piombando sulle
stesse coste etrusche per devastare i porti e le strutture di Tarquinia,
Vetulonia, Populonia, Elba e Corsica e imporre, per di più, un blocco
navale permanente con embargo e conseguente paralisi totale del
commercio etrusco sul Tirreno. Nei deceni seguenti, in mezzo ad una crisi
economica generale di tutta l’Italia centrale, solo Cerveteri-Pyrgi riuscì a
riprendere una certa attività marinara insieme a una discreta capacità
produttiva. E i siracusani, manco a dirlo, sarebbero di nuovo piombati, nel
384 a. C. (Dionigi) sul territorio etrusco, saccheggiando e demolendo
proprio il porto di Pyrgi con il famoso santuario di Uni-Leucothea,
protettrice della gente di mare di tutto il mondo. La rabbiosa e sacrilega
incursione avrebbe questa volta prodotto guasti definitivi. Cerveteri-Pyrgi,
vecchia regina della marineria etrusca, e altri centri, non si sarebbero mai
più ripresi.
In mezzo a quelle due spedizioni, e più precisamente, in un momento di
libera circolazione nel medio-alto Tirreno, dovuta all’assenza forzata dei
siracusani, totalmente impegnati a casa loro nella guerra del Peloponneso
(assedio di Siracusa: 415-413 a. C.), si possono forse ben collocare il
modesto ma lodevole impulso commerciale e le speranze risorte ma
naufragate del mercantile di Calafuria.
Foto e testo del G.A.L.
A. Papò, G. Citi, L. Marini
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